Tradurre da una struttura linguistica ad un’altra vuol dire spostare da una cultura ad un’altra una successione di valori, concetti e convinzioni rigorosamente collegate al tessuto linguistico dello scrittore o dell’oratore. Visto che il traduttore, più che un semplice “trasportatore” di significati letterali è innanzitutto un conciliatore culturale, il suo dovere è più articolato di quanto appaia. Si è discusso molto della supposta fedeltà o tradimento al testo, ma è a questo punto lampante che la parola fedeltà, da sola, non arrivi a spiegare la considerevole molteplicità di implicazioni di una traduzione.
Il vero tradimento non risiede nella traduzione in sé, quanto nel pericolo di travisare i propositi e il bagaglio culturale dell’autore della lingua di inizio. La teoria della traduzione è colma di dispute sull’argomento, ma non tutti sono completamente certi del valore, da parte del traduttore, di un’interdisciplinarietà. Il traduttore dovrebbe essere non un semplice intenditore di lingue e gerghi, non unicamente un filosofo della traduzione, ma anche e innanzitutto un esperto mediatore.
Innanzitutto, un mediatore fra due lingue. Il rischio di cadere negli innumerevoli inganni offerti dal testo è elevato. Il testo di partenza, con tutta la sua abbondanza e difficoltà, si mostra al traduttore con le forme linguistico-narrative appartenenti al suo sistema linguistico. Una traduzione che mostri troppe forzature rivela subito la sua natura artificiosa, priva di autenticità e armonia. La forzatura oltre che un seccante ostacolo alla comprensione del testo, è sintomo di poca inclinazione del traduttore alla mediazione.
Inoltre, è indispensabile una concordanza fra la cultura di partenza e quella di approdo. Supponiamo, ad esempio, che il testo o il discorso di partenza parli della situazione economica tedesca negli anni ’80 e che il traduttore italiano si appronti a tradurlo nel 2020. Non sarebbe probabilmente un po’ bizzarro sentire o leggere firme commerciali italiane, magari diffusesi dopo negli anni 2000? È verosimile che una traduzione di questo tipo susciti nel lettore o nell’uditore un meccanismo di rigetto, un’intuizione dell’innaturalezza uguale a quella provocata dalle forzature. In aggiunta, vi sono malintesi culturali che sfociano in un insopportabile atteggiamento di superiorità del traduttore, magari sicuro che l’artefice del testo o del discorso di partenza faccia parte di una società inferiore a quella di chi traduce.
Concludendo, il traduttore deve saper armonizzare la propria attività con l’estro e il messaggio dell’autore del testo o del discorso di partenza. Siamo effettivamente dinanzi ad un colloquio fra due autori: il primo, che comunica e si esprime nella sua lingua, il secondo con l’onere di riscrivere nella lingua di approdo.
Alla luce delle suddette considerazioni, possiamo trarre delle conclusioni: il traduttore dovrebbe sempre aver presente che la traduzione da una struttura linguistica all’altra, non è un semplice esercizio di stile o un’ostentazione di padronanze grammaticali, dovrebbe in primo luogo essere un atto di mediazione culturale fra differenti realtà, una conciliazione che prenda in considerazione i molteplici elementi di un testo.
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